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La tutela delle lavoratrici nei licenziamenti collettivi

Giurisprudenza - Elisabetta Sartor - 18 Marzo 2020

L’art. 5, 2° co., l. n. 223/1991, stabilisce che, nell’ambito di un licenziamento collettivo, l’impresa non può licenziare una percentuale di manodopera femminile superiore a quella occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione. Secondo la Cassazione, ord., 24 maggio 2019, n. 14254, la norma non prevede una comparazione fra numero di lavoratori dei due sessi prima e dopo la collocazione in mobilità (se così fosse, il vincolo per il datore sarebbe troppo rigido). Essa impone, invece, di verificare la percentuale di donne lavoratrici e, quindi, di mettere in mobilità un numero di dipendenti nel cui ambito la componente femminile non sia superiore alla percentuale precedentemente determinata. Inoltre, il confronto va circoscritto all’ambito delle mansioni oggetto di riduzione, così da assicurare la permanenza, in proporzione, della quota di occupazione femminile sul totale degli occupati.

La pronuncia merita di essere segnalata poiché riguarda una questione di rado affrontata dalla giurisprudenza: la scarsità di precedenti non deriva dall’assenza di violazioni, ma dall’insidiosità della norma. La disposizione costituisce un esempio di azione positiva tesa a favorire l’occupazione femminile e a realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro. La norma, pur lodevole negli intenti, pone problemi interpretativi e applicativi: per esempio, posto che la flessibilità è uno dei requisiti di legittimità delle azioni positive, l’obbligo di preservare la quota rosa deve concorrere con gli altri criteri dell’art. 5, c. 1 (anzianità di servizio, carichi di famiglia)?

È legittimo, per evitare potenziali penalizzazioni delle lavoratrici, ignorare categoricamente lo stato di bisogno economico delle persone dell’altro sesso coinvolte in un licenziamento collettivo?

La posizione di una giovane single, magari con professionalità anche altrove spendibile, deve essere anteposta, sempre e comunque, a quella del lavoratore “debole”, perché giovane o poco professionalizzato o, all’inverso, anziano e con carichi di famiglia e dal quale dipendono tutte le entrate familiari?

La sentenza offre l’occasione per riflettere, in generale, sul meccanismo delle “quote” di genere e, nello specifico, sull’eventuale necessità di bilanciare, in caso di rilevanti differenze socio-economiche tra dipendenti, la tutela della percentuale femminile con il principio di solidarietà sociale, per evitare ulteriori forme di discriminazione.

 

Approfondimenti

Testo della decisione

 

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