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27 gennaio, Giorno della memoria (corta): Ebreo, s.m.

Lingua Diritto Diritti - Elena Pepponi - 27 Gennaio 2023

 

Ebreo, s. m. (anche agg.) […] 2. (fig. spreg.) Secondo un’antica tradizione antisemita, chi (o che) mostra un grande attaccamento al denaro.

Sfogliando l’edizione del 2021 del noto vocabolario Zingarelli, quella in mio possesso, e cercando la parola ebreo ci si imbatte in questa definizione, che rinvia alla nota d’uso Stereotipo. Sotto quest’ultima leggiamo che

si dicono stereotipi linguistici quelle espressioni proverbiali o singole parole nelle quali si riflettono pregiudizi e opinioni, spesso negative, su gruppi sociali, professionali, etnici. […] Spesso lo stereotipo si nasconde, in modo a volte difficile da avvertire, in parole di valore descrittivo. […] Antichi e immotivati pregiudizi etnici o razziali, prodottisi per le più varie vicende storiche, rischiano così di farci offendere, in modo implicito, intere popolazioni.

Insomma, ci dice il dizionario, l’uso di ebreo come insulto esiste, ma è un uso dispregiativo, che sarebbe meglio non reiterare né nel pubblico né nel privato.

Rifletteremo in questo contenuto su come stanno oggi le cose da un punto di vista linguistico, quali passi avanti sono stati fatti e quanto c’è ancora da lavorare per eradicare stereotipi tuttora duri a morire.

Giorno della memoria (corta)

Il 27 gennaio di ogni anno viene celebrato l’International Day of Commemoration in memory of the victims of the Holocaust (letteralmente Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto), comunemente chiamato Giorno o Giornata della Memoria. Istituito dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2005, si è deciso di celebrare il Giorno della Memoria il 27 gennaio perché in quella data del 1945 le truppe dell’Armata Rossa, impegnate ad avanzare verso la Germania ormai prossima alla resa, entrarono al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau e liberarono i pochissimi prigionieri ancora rimasti in vita.

Da un punto di vista linguistico, tutta la macchina della cosiddetta “soluzione finale” è un microcosmo interessante e terrificante, che meriterebbe un approfondimento a parte, ma non è il caso di farlo qui: basti sapere che la pianificazione dello sterminio totale di persone ebree, Rom e Sinti, persone che facevano opposizione politica, persone LGBT+ e altre casistiche è stata trattata come la progettazione e l’avvio di una fabbrica, senza fare riferimento a questi esseri umani come a qualcosa di vivente, ma sempre indirizzandosi a loro come fossero merce inanimata e ormai avariata, da smaltire.

Questo atteggiamento si inseriva nella cornice linguistica del Nazismo, che da più di dieci anni, ovvero dall’ascesa di Hitler al potere nel 1933, aveva deciso di adottare un preciso abito linguistico orientato alla sopraffazione, alla violenza, alla strenua difesa della propria cultura minacciata da non meglio specificati nemici, alla superiorità della razza ariana e all’odio verso il diverso, in qualunque forma esso si manifestasse. Come ha scritto Victor Klemperer, uno dei principali studiosi della lingua del Nazismo, nel suo celeberrimo LTI, La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, infatti,

il Nazismo si infilava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente.
[…] Ma la lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. E se la lingua colta è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi? Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico. (p. 32)

Dunque, la potenza di ciò che veniva detto non era limitata all’effetto sentimentale e primitivo che i discorsi pubblici del Nazismo riuscivano a scatenare nel momento in cui venivano fruiti dal pubblico, ma era qualcosa di più sottile: si insinuava, per così dire, “sotto la pelle”, dentro le vite delle persone, condizionando il modo in cui esse percepivano e vivevano la realtà in una sorta di lucido delirio collettivo.

Presentata così, a un moderno alieno precipitato oggi sulla Terra e digiuno della storia del nostro pianeta, la lingua dell’antisemitismo sembra un’orgiastica follia di gruppo che, proprio per il suo essere assurda e allucinata, ha avuto un inizio e deve aver avuto una necessaria fine. Insomma, una lingua da pazzi costruita per compiere azioni folli, come uno sterminio di massa nel cuore dell’Europa; esaurita la carica tossica dei regimi totalitari, tutto è finito, è stato rimosso come un ascesso purulento e si è tornati alla normalità.

Nulla di più falso.

Ancora oggi, infatti, la memoria di ciò che è accaduto è piuttosto corta, in tutte le lingue. Non conosco il tedesco – se si eccettuano quattro frasi in croce per dire come mi chiamo, che ore sono, da dove vengo e quanti anni ho – ma credo di conoscere l’italiano a un livello sufficiente per dire che il linguaggio della discriminazione, della violenza e della sopraffazione circolano ancora indisturbati in diversi contesti, alcuni anche più insospettabili di altri. Si sono piegati a vessare altre minoranze che non sono necessariamente quella ebraica, ma ci sono e sono fertili. Così, se in quasi tutti i contesti del vivere sociale è difficile che oggi qualcuno abbia il coraggio di dire apertamente in faccia a un altro essere umano “Ebreo di m****” – a meno che non appartenga a gruppi o sposi ideologie apertamente antisemite, perlopiù però condannate –, “N***o di merda” è invece utilizzatissimo, e non necessariamente da persone dalle quali ce lo aspetteremmo, senza parlare del sempreverde “F****o di merda”.

Potremmo dunque domandarci “Ma allora a che serve il Giorno della Memoria” se poi tutto il resto del tempo lo passiamo a utilizzare la lingua per vessare qualcun altro? Beh, anche la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre, ndr) viene spesso accusata di inutilità, se in quella giornata tappezziamo le città di scarpe rosse ma poi gli altri 364 giorni dell’anno ci vediamo morire centinaia di donne sotto il naso. Invece, non è assolutamente vacua: è un baluardo, un modo per dire “La società civile c’è, e martella tutti gli anni affinché non si ripeta più”. Sta poi a noi parlanti fare il lavoro materiale nel quotidiano: spogliare le nostre lingue, i nostri discorsi, dall’odio e dalla prevaricazione, non usare più gli stereotipi che attribuiscono caratteristiche negative, prive di alcun senso di esistere, a un popolo, e cercare di costruire una società migliore attraverso – anche – le parole.

Antisemitismo latente e politicamente corretto

Nel fare ricerche per scrivere questo contenuto mi sono imbattuta in un articolo di Sara Natale pubblicato il 25 marzo 2019 sul magazine Lingua italiana di Treccani.it e intitolato La parolaccia ‘ebreo’: dalle accezioni antisemite al tabù del politicamente corretto.

L’autrice sostiene che

è esperienza ormai comune imbattersi in articoli di giornale che trasformano ‘ebrei’ famosi in celebrità ‘di origini ebraiche’. Che io sappia, la frequente (e indebita) eliminazione verbale di ebrei sta lasciando indifferenti i linguisti, mentre non smette di suscitare fastidio negli ebrei italiani.
[…] Viene quindi da chiedersi se sul
Corriere di oggi sarebbe ancora possibile leggere la parola ‘ebreo’ che campeggiava in prima pagina il 12 aprile 1987, nell’occhiello che annunciava la scomparsa a Torino dello scrittore ebreo Primo Levi, e che abbondava negli articoli pubblicati nei giorni successivi su altre testate come La Republica.

Secondo l’autrice ci sono quattro principali cause per cui la parola ‘ebreo’ verrebbe sistematicamente sostituita nei giornali con la locuzione ‘di origine/di religione ebraica’: il fatto che ormai il termine sia percepito come un insulto, il fatto che per molto tempo sia stata ritenuta un marchio, il timore di apporre a degli esseri umani un’etichetta e infine una generale “confusione” su cosa significhi veramente l’essere ebreo.

In realtà basta fare una piccola ricerca sugli archivi online dei principali quotidiani italiani per smentire questa posizione.

Sull’archivio del Corriere della sera, che parte dalla fondazione del giornale nel 1876, la parola ebreo compare 56.462 volte (ultima apparizione: 4/1/2023), la locuzione di origine ebraica compare 2756 volte (ultima apparizione: 4/1/2023) e di religione ebraica lo troviamo 2566 volte (ultima apparizione: 11/12/2022): la sproporzione è evidente.

Proponendo la medesima ricerca sugli archivi di  La Repubblica, che però risalgono solo fino al 1 gennaio 1984, scopriamo che ebreo è presente 14.460 volte (ultima apparizione: 14/1/2023), di origine ebraica lo troviamo 725 volte (ultima apparizione: 10/12/2022) e di religione ebraica è presente solamente 504 volte (ultima apparizione: 9/1/2023): anche in questo caso, il disequilibrio è nettissimo.

Insomma, non abbiamo alcun dato concreto per affermare che sia in atto, nella lingua dei giornali, una sistematica sostituzione del termine ebreo con delle locuzioni attenuative stimolate da un atteggiamento politicamente corretto – sostituzione che, probabilmente, all’autrice è stata suggerita più da una percezione personale che non da una ricerca quantitativa sui dati.

Il focus del discorso, quindi, è tutt’altro: non importa quante volte sostituiamo un termine con uno che ci sembra meno aggressivo, o in che contesti lo facciamo; importa costruire discorsi che nella propria globalità non siano prevaricatori e portatori di razzismo e discriminazione, a prescindere dal peso specifico delle singole parole o espressioni che li compongono. Altrimenti sarebbe come dire che la frase “Odio Mario perché è una persona di religione ebraica, e si sa che le persone di religione ebraica sono tirchie e truffatrici” sia meno grave della sua omologa “Odio Mario perché è ebreo, e si sa che gli ebrei sono tirchi e truffatori”.

Dagli all’Ebreo!

In calce a questa riflessione potremmo chiederci se abbia ancora senso riflettere da un punto di vista linguistico su ebreo utilizzato come insulto, e su quanto l’insulto messo sul piano economico-finanziario sia ancora vitale. Siamo nell’anno 2023, l’accesso all’informazione è facile e plurale, esiste la Giornata della Memoria da quasi vent’anni, i dizionari più moderni ci mettono in guardia e ci spiegano che ebreo è una parola che ha assunto un significato spregiativo per contingenze storiche e sociali; inoltre, abbiamo capito che non è sempre il termine singolo a qualificare un enunciato come insulto, e che si può insultare anche senza pronunciare la ‘parola da allarme rosso’. Insomma, abbiamo tutti gli strumenti per capire come fare a non alimentare odio verbale.

La vita reale, però, è un po’ diversa. Prendiamo spunto da qualche caso di cronaca molto recente.

Il 18 febbraio 2021 la Senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta italiana alla Shoah, si è sottoposta al vaccino anti-Covid19 facendosi fotografare e riprendere dalle telecamere per sollecitare una vaccinazione di massa contro l’epidemia, ringraziata anche pubblicamente dal governatore della Lombardia Attilio Fontana. Alcuni utenti di Facebook, poi denunciati dalla Senatrice, hanno commentato il post con esternazioni di questo tenore: “Aveva paura di morire la st*****? Non sono riusciti neanche i tedeschi ad ammazzarla…e ora ha paura di morire?”. Ci accorgiamo subito che qui la parola ebreo non è neanche mai menzionata e non si insulta direttamente la Senatrice per qualcosa che abbia a che fare con la sua appartenenza alla religione ebraica, tantomeno si fa riferimento al significato storico spregiativo legato all’accumulo di ricchezze.

Eppure, in qualche modo il concetto viene fuori sotto forma di implicito, con un’associazione di pensiero che mostra tutta la sua fallacia logica. I tedeschi del regime di Hitler, nella loro crudeltà, hanno oggi il loro erede naturale nel Covid19, altrettanto crudele e spietato. La Senatrice, che è riuscita a contrastare i primi, che la volevano uccidere in quanto ebrea, anteponendo la voglia di vivere alla paura di morire, sarà ben capace di anteporre ancora una volta la propria voglia di vivere al timore del Covid, senza bisogno di ricorrere ai vaccini. Un ragionamento che, per essere gentile, fa acqua da tutte le parti, espresso con “soltanto” una parolaccia – peraltro oggi molto sdoganata e poco incisiva rispetto al passato – e tutto sommato molta meno violenza di quella a cui purtroppo il web ci ha abituato.

Tuttavia, è chiarissimo che si tratta di un vile insulto antisemita e che si accanisce su una persona che ha come unica colpa quella di aver deciso di fare suo il messaggio della scienza, la quale infatti poi ha denunciato l’autore per linguaggio d’odio. E allora qui che senso ha tirare in ballo le origini religiose della Senatrice Segre se l’argomento è il vaccino e chi scrive si professa no-vax? Sarebbe bastato, casomai, apostrofarla come ‘vecchia’, se proprio vogliamo considerare l’età avanzata un insulto.

Questo ci dimostra che il termine ebreo va molto oltre quello che c’è scritto nel dizionario, pur se segnalato come spregiativo: nell’idea di molte persone, il termine ha anche una connotazione diminutiva dal punto di vista dell’intelligenza e della dignità umana. Come dire, sei ebreo, non capisci nulla, sei ‘inferiore’ e fai scelte scellerate in virtù della tua stupidità.

Casi completamente diversi, ma complementari, sono quelli ai quali tocca assistere molto spesso negli stadi: non è infrequente, infatti, l’uso di cori antisemiti nei confronti della squadra avversaria, puntualmente sanzionati ma quasi impossibili da eradicare. “Rossoneri ebrei”, “I campioni dell’Italia sono ebrei” (sul motivetto musicale di “I campioni dell’Italia siamo noi”), “In sinagoga vai a pregare / ti farò sempre scappare / romanista vaff******” sono solo alcune delle amenità che si possono sentire in diversi stadi d’Italia. Anche in questo caso, l’utilizzo esplicito dell’aggettivo ebreo o il riferimento alla fede ebraica non vogliono essere insulti, o non soltanto, legati al tema dei soldi: con ebreo si intende anche inferiore, incapace di capire, meno intelligente o sviluppato, meno degno di rispetto, tanto da tifare la squadra avversaria, che notoriamente “fa schifo” e va insultata e denigrata.

La continua vitalità di queste manifestazioni, sia dal vivo che sul web, ci fa capire che il termine ebreo travalica ciò che ci spiegano i dizionari: il fatto che venga usato frequentemente ci testimonia che su di esso avvengono continui processi di rinegoziazione semantica (cioè, nell’usarlo i parlanti riflettono criticamente su di esso, lo rinnovano sempre e gli attribuiscono nuovi significati condivisi). Quindi, l’uso del campo semantico della religione ebraica come insulto a tutto tondo è più vivo che mai.

Dunque, Giorno della Memoria a parte, capiamo che la lingua è viva e continuamente riplasmata dai suoi parlanti: sta a noi prendere una strada o l’altra, fare scelte linguistiche che includano anziché escludere, spezzare la catena di sopraffazione e diventare sempre più consapevoli delle parole che utilizziamo.

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